
La lirica non è mai stata una componente così importante dei generi musicali che hanno fatto da colonna sonora alla mia infanzia.
Ricordo le bellissime canzoni di musica leggera che mia madre ascoltava alla radio; ricordo la musica classica, la contemporanea e il jazz che, trasmessi dal terzo canale RAI, risuonavano di sera nello studio di mio padre, ma della lirica serbo pochissimi ricordi.
Questo credo abbia contribuito a farmi percepire quel genere molto distante, se non addirittura a tratti fastidioso. Non sapevo ancora che in un’epoca in cui non esistevano gli impianti audio, le voci impostate in un modo che mi appariva così innaturale servivano a garantire al pubblico un ascolto degno di questo nome anche nei grandi teatri.
Si dice che le mele non cadono mai troppo lontane dall’albero, e da tempo mi scopro caduto vicinissimo, proprio sotto la chioma di quella pianta: diversi anni fa ho iniziato ad ascoltare anche io quel canale radiofonico – ascoltarlo è diventata una consuetudine in seguito a vari eventi, come ad esempio la segregazione imposta dal Covid, che mi hanno portato a trascorrere molto tempo da solo, in casa -, e quell’emittente, tra le tante proposte musicali, oggi prevede massicce dosi di musica tratta da opere famose.
Immagino, quindi, che sia stato così che ho imparato ad apprezzarla (non tutta; ancora faccio fatica con molti brani e interpreti): lasciando fare ai palinsesti radiofonici, concedendomi quindi l’ascolto non solo dei miei cd preferiti, ma anche di ciò che non avrei mai comprato, e lasciandomi introdurre alle difficoltà e alle sfide cui gli artisti in quell’ambiente si sottopongono grazie alle spiegazioni che simpaticamente forniscono i conduttori del programma “La barcaccia”.
E immagino pure che sia stato grazie a loro, e di sicuro all’ascolto inconsapevole di qualche colonna sonora, che ho scoperto l’aria pucciniana “E lucevan le stelle”, tratta dalla “Tosca”.
A parte il titolo, che già di suo stuzzica l’astronomo che è in me – leggendo quel testo, si scopre che di astronomico vi è davvero poco, ma va benissimo così -, la melodia in Si minore di questo “monologo” del pittore, condannato a morte, Mario Cavaradossi, complice il periodo storico davvero angosciante nel quale stiamo vivendo, si è imposta nei miei pensieri costringendomi ad ascoltarla, ricordarla, viverla, subirla, e alla fine, nel necessario tentativo di purgarla dalla mia testa, suonarla.
La logica sottostante la decisione di studiarla è molto “da judoka”: se qualcuno o, come in questo caso, qualcosa, è chiaramente più forte di te, sfrutta la sua forza e il suo impeto per evitare di esserne sopraffatto. L’amplificazione della tristezza e dell’angoscia che ci regalano le notizie di politica nazionale e internazionale, capaci di fare spesso apparire insormontabili pure problemi personali che in altri momenti considererei del tutto affrontabili, è stata notevolmente rafforzata dall’ascolto ripetuto delle note di questa aria, e alla fine non mi è rimasto da fare altro che indossare il kimono, salire sul tatami e affrontarla a muso duro.
Nel farlo, ho voluto lasciare quanto più possibile invariata la parte del pianoforte, evitando così di arrangiarla come avrei fatto se fossi stato alle prese con un brano del quale non si trova la partitura originale.
Una scelta dettata da una certa mia passione per la “lettura dei classici”, ma anche e soprattutto dalla consapevolezza che se non avessi fatto così, avrei perso una splendida occasione per rinfrescare la capacità di leggere uno sparito, benché semplice, per pianoforte, e di rimettere le mani su quello strumento classico che oramai frequento poco.
In ogni caso, non ho resistito, e mentre qui e là nel corpo del brano ho compiuto solo minime variazioni, mi sono auto-… autorizzato a cambiare le cose soprattutto nel finale, così da concedere una manciata di battute supplementari all’improvvisazione dell’armonica.
Scrivo queste righe a distanza di un giorno dalla pubblicazione del video nel quale rileggo quella pagina e confesso di sentirmi meglio: di sicuro ho fatto mio quel brano, vivendolo soggettivamente, e ora, avendolo suonato e registrato, me ne sono finalmente liberato.
L’ho fatto oggettivizzandolo, con la consapevolezza di essere sceso a patti con l’infinita tristezza di quelle note e quelle parole con l’obiettivo di sfruttarne la forza per convertirlo in qualcosa di “concreto”.
Ora posso finalmente dedicarmi ad altro.
Angelo Adamo